Dialogo, diplomazia, trattare, risoluzione dei conflitti, accordi, fare la pace, non la guerra.
Sono parole che corrono sui giornali in Tv e nei social media, fra analisi raffinate e superficiali semplificazioni. Ma intanto si vede un’umanità massacrata, nel corpo, nello spirito e nelle architetture delle città, nelle chiese, nelle scuole e negli ospedali e perfino nelle risorse alimentari destinate a mezzo mondo, di cui l’invasa Ucraina è produttrice. Morte e distruzione hanno vinto, nei tre mesi scorsi, e non si sa per quanto tempo ancora, alle porte dell’Europa e in centinaia di teatri di guerra, sui quali si sono spenti i riflettori, ma non i fuochi.
La notizia venuta il 14 scorso da Torino riaccende la speranza che la vita possa trionfare sulla morte. La Kalush Orchestra dell’Ucraina, col voto degli europei e in particolare degli italiani, vince la finale n. 66 dell’Eurovision Song Contest col brano Stefania, dedicato alla figura della madre, che diventa un simbolo universale di vita, come la Pietà di Michelangelo. Il presidente ucraino Zelensky esulta: “Il nostro coraggio impressiona il mondo, la nostra musica conquista l’Europa. L’anno prossimo l’Ucraina ospiterà l’Eurovision, per la terza volta nella sua storia. Faremo di tutto per accogliere i partecipanti e gli ospiti a Mariupol. Libera, tranquilla, restaurata”.
Ripenso a queste due situazioni, che sono entrambe frutto della mente e del cuore degli uomini. Diceva Schiller che ciò che fa di questo mondo un inferno è la nostra pretesa di farne un paradiso.
Questo aforisma si adatta bene alla “operazione militare speciale” di Putin, che vuole riportare nella Grande Russia i “fratelli ucraini”, con una guerra che fa morire anche i “fratelli russi” e la speranza in una pace giusta. Per molti, che vorrebbero la pace senza riuscire a fermare l’aggressore, è colpevole anche chi aiuta con le armi l’aggredito, perché prolunga una guerra ingiusta, sacrificandosi senza speranza o rischiando di indurre l’aggressore ad usare l’arma atomica, premessa di una catastrofe mondiale. Certo non si può negare che vincere una guerra distruggendo una nazione sovrana e democratica, contro le norme del diritto internazionale dei diritti umani, sia una cosa diversa dal vincere un pur prestigioso festival di parole, di musica e di danza acrobatica.
Se la Russia smette di bombardare e si ritira, l’Ucraina si salva; ma se l’Ucraina smette di combattere, cessa di esistere come paese libero.
Diceva una canzone negli anni ’70: “Chiedo al vietcong: perché uccidi il marine? Per la libertà risponde il vietcong. Chiedo al marine: perché uccidi il vietcong? Per la libertà risponde il marine. Credevo che la libertà fosse vita”.
Sotto il monumento a Jan Huss, bruciato a Praga nel XIV secolo perché eretico, c’è scritto in boemo: “Amiamoci insieme, ma lasciamo a ciascuno la sua verità”.
Per il pedagogista Mauro Laeng, autore della grande Enciclopedia pedagogica (1989-2003), per superare i disaccordi bisogna anche “ospitare nella propria mente una rappresentanza dell’interlocutore, con la quale cercare onestamente un superamento delle divergenze, o almeno una loro composizione in un quadro più ampio, che è quello problematico delle ‘questioni aperte’. Quando lo spirito di domanda si allarga, riducendo quello della risposta sempre pronta e prefabbricata, si allarga anche l’intesa; e si può fare un buon tratto di strada insieme”.
Dobbiamo però ammettere che talora “sì e no nel capo mi tenciona”, come diceva Dante, e che le nostre decisioni, per quanto informate, oneste e necessarie, non ci autorizzano ad odiare o a distruggere chi fa una scelta diversa dalla nostra.

Luciano Corradini

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