Data la mia età, assediata dalla strategia gerontofobica utilizzata dal Covid-19, mi permetto di ricorrere a qualche cenno biografico per condividere con i giovani un breve ricordo del 25 aprile, festa della Liberazione.

Una mattina del 1986, quando abitavo a Milano, decidemmo, con mia moglie e mio figlio, che saremmo andati alla manifestazione organizzata dall’ANPI per ricordare il 25 aprile. C’erano solo 3 macchine con gli striscioni sul cofano, davanti alla sede del Consiglio di Zona di Porta Venezia. Col nostro arrivo, le macchine divennero 4 e così noi rappresentammo il 25% della delegazione che si preparava a visitare le 14 lapidi del Quartiere, per portare corone d’alloro ai martiri della Resistenza. Quando uno del gruppo, lamentando le assenze degli “altri”, disse che avrebbero potuto sfoderare le loro bandiere rosse, feci garbatamente valere le nostre ragioni di cittadini della parrocchia di San Gregorio. Sicché questo bastò a restituire al Tricolore il suo carattere di simbolo dell’unità nazionale.
Si prese atto che il nostro 25% possedeva due primati: mio figlio era il più giovane del gruppo e io ero il più alto. Lui ascoltò le commosse parole dell’anziano presidente dell’ANPI, che fu lieto di poter consegnare a un giovane il suo ricordo e il suo messaggio; io manovrai con discreta perizia il bastone che serviva per installare le corone vicino alle lapidi, poste molto al di sopra delle nostre teste, e forse per questo ignorate dai passanti e dagli abitanti del quartiere. Mia moglie, che aveva caldeggiato la nostra partecipazione, prendeva appunti. Registrava i nomi di quei giovani che erano stati fucilati a Milano o uccisi nei campi di concentramento, talora pochi giorni prima o dopo la Liberazione; e annotava le frasi con cui amici e parenti avevano voluto ricordare il senso di quei sacrifici.
Si scendeva dalle macchine, si sostava un istante, si poneva in alto la corona, come se si cercasse di cogliere il gesto, il sorriso, la smorfia di dolore di chi aveva offerto la sua vita perché noi potessimo conservare e sviluppare la nostra vita di cittadini liberi e democratici.
Poi si risaliva in auto e si ricominciava la piccola processione di quella via crucis civile che ci ha fatto sentire popolo italiano, come la via Crucis del Venerdì santo ci fa sentire popolo di Dio.
Fra una stazione e l’altra leggevamo qualche frase di un giornaletto dell’ANPI o ricordavamo qualche pensiero dei Condannati a morte della Resistenza. Sentivamo il bisogno di ringraziare il Signore, che ha dato tanta forza a quei giovani, di ringraziarlo per la libertà conquistata.
Al termine della visita, abbiamo aderito all’ANPI, per restare informati e per condividere quel grande patrimonio di fede nella libertà e nella pace, che ha caratterizzato questo lungo dopoguerra.
La strage pandemica di questo 2020 mette a dura prova la nostra speranza di indefinito benessere, per l’inedito scenario di morte, paura, isolamento, crisi economica, incertezza che provoca per il futuro. D’altra parte questa lotta contro un nemico invisibile, che ci impedisce di fare le manifestazioni laiche e religiose del 25 aprile, sta, almeno in parte, risvegliando le migliori energie che hanno consentito all’Italia di riemergere, attraverso la Resistenza e la Costituente, dal “crogiolo ardente” della guerra mondiale degli anni ’40.
Per questo possiamo associare, alla Pasqua cristiana, la Pasqua civile che il nostro Paese si prepara a celebrare, anch’essa per la prima volta in via telematica, a 75 anni da quell’evento.


Luciano Corradini

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